Chris Burden è indissolubilmente legato alla performance Shoot ed a quel proiettile calibro 22 che lo colpisce al braccio. Ma la sua parabola artistica non si è mossa solo lungo la linea di confine con i limiti della resistenza del suo corpo.
Chris Burden nasce nel 1946 a Boston, ma cresce tra il Massachusetts, la Francia, la Svizzera, la Cina e l’Italia. Studia al Pomona College e si specializza all’Università della California, dove ha Robert Irwin tra i suoi insegnanti.
Si interessa di body art e performance fin dagli anni ’70, sviluppando l’idea del pericolo e del dolore fisico come espressione artistica. Tra le sue prime performance figura: Five Day Locker Piece (1971) durante la quale si fa chiudere in un armadietto per cinque giorni, bevendo solo acqua.
L’azione più note resta però Shoot dello stesso anno, in cui chiede ad un amico di sparargli con un fucile calibro 22 dalla distanza di circa 5 metri (nel video che segue: una breve descrizione della performance e delle sue implicazioni da parte dei due protagonisti, in un breve documentario del New York Times).
In seguito (1974) realizza Trans-fixed, in cui si fa inchiodare al tetto di un Maggiolino Volkswagen. Il risultato è una sorta di crocifissione blasfema, che sostituisce la sacralità della mistero religioso con l’evocazione del consumismo attraverso quella che l’artista considera “l’auto del popolo”.
Oltre l’uso del corpo: l’altra faccia di Chris Burden
Alla fine degli anni Settanta, comunque, Burden abbandona la body art e comincia a dedicarsi ad altri generi, in particolare alle installazioni. Come Samson (1985) in cui un meccanismo spinge due grossi blocchi contro le pareti portanti dell’edificio in cui è contenuta ogni volta che un visitatore entra per vederla, mettendo in crisi la stabilità dell’edificio stesso.

Oppure The Other Vietnam Memorial, composta da piastre di acciaio girevoli in rame su cui sono incisi tre milioni di nomi ricavati da elenchi telefonici vietnamiti, mescolati e abbinati attraverso un computer. Il numero indica il totale delle vittime del conflitto, includendo anche le perdite vietnamite, che sono molte di più dei circa 58mila morti americani elencati nel Vietnam Veterans Memorial dell’architetto Maya Lin a Washington.
Negli ultimi anni, figurano la perturbante Ghost Ship del 2005, una barca a vela senza equipaggio ma perfettamente funzionante, che ha fatto il suo viaggio inaugurale, tra la Fair Isle (Scozia) e Newcastle-upon-Tyne (Inghilterra).

Urban Light (2008), composta da 202 lampioni in ghisa di 17 differenti tipologie, prima utilizzati nell’illuminazione urbana, installati di fronte al Los Angeles County Museum of Art.
Ed infine Metropolis II, una scultura cinetica con più di mille automobili in miniatura che corrono lungo un intricato sistema di strade, autostrade, binari ed edifici. Burden ha impiegato circa quattro anni per terminarla.
Le circa 100mila automobiline che circolano ogni nella rete urbana della scultura, provengono direttamente dalla Cina (in Metropolis I erano Hot Wheeels, ma non soddisfacevano l’artista) e sono il simbolo del frenetico moto perpetuo di una metropoli dominata dai motori.
Dal 1978 al 2005 ha insegnato alla University of California, da cui si dimette – insieme alla sua seconda moglie, Nancy Rubins – come segno di protesta nei confronti dell’istituzione che si era rifiutata di sospendere uno studente che aveva utilizzato una pistola apparentemente carica per inscenare una roulette russa durante un’azione performativa nel campus.
Un atto molto forte, per l’uomo che aveva dichiarato che la paura e il dolore usate in un’opera d’arte danno energia alla situazione, ma che sottolinea come, anche nelle performance più estrenme, Burden avesse ben chiari i limiti da non superare.
La retrospettiva più imponente che sia stata dedicata al suo lavoro è Chris Burden: Extreme Misures, allestita nel New Museum di Manhattan nel 2013/2014. L’anno successivo muore per un melanoma maligno.
Per Bolaffi ha realizzato la copertina Arancio della serie I colori dell’iride.