Joan Mirò: un ribelle sotto mentite spoglie

Joan Mirò è uno degli artisti iconici del Novecento. Le sue opere astratte sono entrate nell’immaginario collettivo e fanno parte ormai della Storia dell’Arte.

Nella sua lunga vita (1893 – 1983) ha attraversato molteplici fasi creative e le sue opere hanno trovato spazio non solo nei musei e nelle collezioni private, ma anche nelle strade, nelle piazze, trasformando lo spazio pubblico e influenzando di volta in volta altre discipline, come l’architettura e il design.

Uno sguardo inedito sulla sua ricerca viene offerto dal documentario Joan Mirò, il fuoco interiore di Albert Solé, grazie anche alla presenza di Joan Punyet Miró, nipote ed unico erede e amministratore dell’immensa opera dell’artista.

Il ritratto che emerge è quello di un artista dall’apparenza mite e borghese, ma essenzialmente inquieto, sovversivo e iconoclasta, mosso dalla continua ricerca di nuove forme espressive, nel segno di libertà assoluta e senza vincoli.

Nato a Barcellona nel 1893, Joan Mirò mostra interesse e talento nel disegno fin da bambino. La famiglia, tuttavia, non vuole che diventi un artista e lo spinge a intraprendere studi commerciali. Quando comincia a lavorare come contabile, il giovane Mirò resta ben presto vittima di un esaurimento nervoso e si ritira nella casa di famiglia a Mont-roig del Camp per riprendersi. Lì matura la decisione di dedicarsi alla pittura. Si iscrive quindi all’Accademia a Barcellona, si avvicina al fauvismo e tiene la sua prima mostra alle Galeries Dalmau (1918).

Dopo qualche anno si trasferisce a Parigi, attratto dalla sua centralità culturale. Nella capitale francese stringe amicizia con il conterraneo Picasso, che lo introduce nella vivace comunità artistica locale. Stringe amicizia con Trista Tzara, entra nel circolo dei Surrealisti (Andrè Breton lo definisce “il più surrealista di noi tutti”).

In questi anni emerge la sua anima radicale ed estremista: si dedica a quello che definisce “assassinare la pittura” e sperimenta nuove tecniche come litografia, acquaforte, scultura, pittura su carta catramata e vetro, “grattage”. Giunge infine alla “antipittura”, realizzando lavori che assemblano materiali ed oggetti diversi su tela, come la Ballerina Spagnola del 1928: uno spillone che trafigge una piuma su una tela bianca.

Rompe quindi con il Surrealismo e i diktat di Breton sulla pittura: da sempre avverso ai dogmi di ogni genere, si allontana dal gruppo per essere libero di seguire la propria urgenza creativa.

Intanto, si sposa con Pilar Juncosa (1929) a Palma de Maiorca ed ha una figlia, Maria Dolores (1931). Sono anni difficili, l’avvento del franchismo lo porta a raccoglie fondi per la causa repubblicana a Parigi, città che abbandona otto giorni prima dell’invasione nazista.

Nel 1937 all’Esposizione Internazionale di Parigi (la stessa in cui è presente Guernica) presenta un dipinto monumentale intitolato El Segador (il mietitore), che rappresenta un contadino con le braccia alzate che brandisce una falce ed è dedicata ai catalani che combattono il regime. L’artista la dona al governo repubblicano in esilio a Valenza ma l’opera viene perduta.

Nel ’39 si trasferisce con la famiglia in Normandia, dove si dedica alle Costellazioni: semplici guazzi su carta. I bombardamenti lo spingono a scappare e, benché sia fortemente ostile al regime di Franco, torna a Palma de Maiorca con la famiglia, attirandosi le critiche degli altri esuli politici, come Picasso, che invece resta in esilio.

A questo periodo risale la serie di litografie ispirate a Pere Ubu di Alfred Jarry, intitolata Barcelona: i colori sono scomparsi, resta un nero profondo che racconta le sofferenze della Spagna sotto dittatura.

Nel 1941 c’è la sua prima retrospettiva al MOMA di New York, dove Mirò ritrova Alexander Calder, che aveva conosciuto nel 1928. Nel 1954 vince il premio per la grafica alla Biennale di Venezia e nel 1958 il Premio Internazionale Guggenheim. In questi anni la sua relazione con gli Stati Uniti si intensifica.

A Palma di Maiorca, nel 1956, si stabilisce in una casa progettata e costruita dal cognato, cui aggiunge un laboratorio e uno studio di pittura. In seguito dona parte della proprietà alla cittadinanza: nasce così il nucleo di quella che nel 1981 diventerà la Fundació Pilar e Joan Miró.

La sua ricerca artistica è in costante evoluzione. Si avvicina alla ceramica, che sperimenta con Joan Gardy Artigas, figlio di un suo amico e conterraneo: Mirò si innamora della triade fuoco – cenere – fumo e comincia a produrre elementi ceramici che diventano tessere musive.

In seguito a una permanenza in Giappone, dove realizza il murales di Osaka, collabora con dei calligrafi locali ed impara un nuovo modo di usare il pennello. Resta affascinato dalla filosofia zen: nella sua casa a Palma di Maiorca realizza una “stanza degli assenti” dove si dedica all’introspezione ed alla meditazione.

La sua pittura si sposta verso la semplificazione di colori e forme, nelle sue opere spesso i grandi formati ospitano solo due colori e pochi elementi essenziali, come una linea o un punto.

Il suo estremismo e la sua avversione al regime franchista non sono mai sopiti: quando un ministro del governo franchista dichiara che sarà presente all’inaugurazione della prima retrospettiva che gli viene dedicata in Spagna nel 1968, Mirò, semplicemente, non si presenta.

Si reca invece al collegio degli architetti di Barcellona dove, insieme ad un gruppo di artisti di strada, dipinge sulla superficie vetrata dell’edificio. Tre giorni dopo distrugge pubblicamente la propria opera. Mite e introverso all’apparenza, era invece animato da una feroce rivolta interiore che lo spinge a sostenere le contestazioni giovanili e l’opposizione politica. Uno dei suoi temi è anche la celebrazione della donna, che passa attraverso forme morbide ed esplicitamente sessuali. Tuttavia, la sua visione del sesso è legata alla magia, all’idea dell’origine primigenia, alla nascita della vita ed alla morte.

Negli ultimi anni della sua produzione, uno dei suoi strumenti di lavoro diventa la benzina: con combustibile e fiamma, Mirò modella le forme dei suoi dipinti e, in seguito, anche degli arazzi, che aveva cominciato a produrre insieme al giovane artista Josep Royo.

Nel 1974 al Grand Palais gli viene dedicata una retrospettiva: lì Mirò espone le opere “bruciate”, una provocazione che viene apprezzata dalla critica e fa salire le sue quotazioni.

I suoi collaboratori diventano sempre più giovani e sovversivi: nel 1975, alla morte di Franco, Mirò si dedica al teatro con la compagnia anarchica La Claca. Scrive lo spettacolo Morí el Merma, ispirato a Ubu Roi di Alfred Jarry. Pere Ubu, vigliacco, avaro e bugiardo, diventa il simbolo del dittatore Franco e la prima si tiene al Teatro Liceu, regno della borghesia catalana.

Ancora una volta, Mirò contraddice la sua apparenza apparenza borghese, mite e silenziosa, per dare voce alla sua indole ribelle.

La fine della sua produzione pittorica vede numerose tele nude, con una singola linea. Una semplice linea che rappresenta il punto di arrivo di una ricerca spasmodica della “essenza” della pittura e simboleggia la sua – finalmente raggiunta – libertà.

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